La lingua gentile: guida pratica per non discriminare con le parole

Il linguaggio inclusivo nel marketing digitale è una risorsa che può portare vantaggi alle aziende che lo adottano o è legato solo a un approccio politicamente corretto alla realtà? Abbiamo approfondito il tema in un ciclo di tre incontri traendo alcune riflessioni utili per poter approcciare questo vasto e complesso argomento.
Nonostante i dibattiti sollevati negli ultimi mesi dai media generalisti siano concentrati sopratutto sui nomina agentis (come definire le professioni al femminile), la realtà è molto più complessa e interessante. A partire dalle battaglie della comunità LGBT+ fino ad arrivare al movimento Black Lives Matter, la cultura della Diversity&Inclusion ha promosso un cambiamento nell’approccio HR aziendale poi riflessa nelle strategie di Marketing.
Abbiamo quindi cercato di capire che tipo ripercussioni può avere una “lingua gentile” nella costruzione di una campagna di comunicazione.
Il linguaggio inclusivo: non essere un elefante in un negozio di asterischi
Il primo appuntamento aveva come obiettivo comprendere cosa si intenda per “lingua inclusiva” che, oltre alla discriminazione di genere, comprende il linguaggio sull’etnia e sulla disabilità. L’uso di una lingua corretta è sicuramente una sfida che coglie molti impreparati perché, nella pratica, è molto facile sbagliare. L’italiano infatti è una lingua orientata verso le distinzioni di genere (il cosiddetto maschile sovraesteso) e le soluzioni possono alzare critiche o difficoltà. Esistono però diverse soluzioni: sostituire il maschile generico con lettere o simboli (asterischi, chiocciole o schwa), utilizzare forme passive o adottare termini collettivi (es. persone, corpo docente, etc).
Linguaggio inclusivo significa anche linguaggio sull’etnia e sulle disabilità. Per combattere il razzismo ad esempio sono state inventate espressioni come “di colore” per definire le persone nere, creando però una discriminazione maggiore della precedente. Per questo motivo un approccio corretto dovrebbe essere quello di chiedere alle persone che stiamo designando, come preferiscono essere chiamate.
Stessa situazione per termini come “handicappato”, “diversamente abile” e “disabile” che sono ritenuti discriminatori in quanto definiscono la persona solo in base alla sua disabilità. Il linguaggio inclusivo preferisce quindi l’espressione “persona con disabilità”. Questa espressione tende ad indicare una persona qualunque, con molte capacità oltre alla sua disabilità.
Il marketing inclusivo: rappresenta la persone nel mondo reale
L’utilizzo di un linguaggio inclusivo dovrebbe essere inserito in una più ampia visione di marketing, in particolare in quello che viene definito Inclusive Marketing. Cosa significa?
Secondo la definizione di Hubspot, fare marketing inclusivo significa sviluppare "campagne che abbracciano la diversità, includendo persone con background diversi o storie a cui possono relazionarsi. Mentre alcune campagne inclusive si sforzano di rompere gli stereotipi, altre mirano semplicemente a rappresentare le persone nel mondo reale”.
La pubblicità che si basa su questi principi porta notevoli benefici ai brand aumentando la fiducia e la fedeltà da parte dei consumatori e migliorando la percezione che quella azienda ha nella società. Occorre però ricordare che la diversità va oltre il sesso o il colore della pelle e comprende età, geografia, differenze socioeconomiche e professionali, capacità e sessualità.
Tre sono le principali linee guida da seguire per sviluppare un approccio inclusivo: * Costruire una comunicazione basata sulla rappresentazione autentica e non stereotipata della realtà. In altre parole, considerare che la società è composta da persone diverse sotto punti di vista e additarne i differenti punti di vista.
Raccontare storie vere in cui il target possa immedesimarsi significa smontare gli stereotipi e non rendere eroi i padri che cucinano un pasto alla prole perché la madre ha osato lasciarli da soli a cena.
Tenere in considerazione l’accessibilità degli annunci, delle piattaforme e dei contenuti.
Stereotipi e pregiudizi
Durante l’ultimo incontro abbiamo affrontato il tema degli stereotipi e dei pregiudizi che sono alla base dei linguaggi non inclusivi e che spesso sono veicolati nelle campagne di comunicazione.
Lo stereotipo, nei linguaggi verbali e visivi, non è di per sé negativo ed è un meccanismo funzionale alla comunicazione che può semplificare la comprensione e l’efficacia del messaggio. La ricaduta negativa - sopratutto per chi si occupa di sociale - è legata al fatto che esso funziona attraverso la ripetizione nel tempo e veicola dei giudizi sulla realtà o su un gruppo di persone che presentano medesimi tratti (fisici o comportamentali).
Strettamente legato allo stereotipo è il pregiudizio che potremmo definire come “tendenza a considerare in modo sfavorevole le persone che appartengono a un determinato gruppo sociale”. In altre parole se lo stereotipo rappresenta il nucleo cognitivo, il pregiudizio è il comportamento innescato da quella credenza.
Stereotipi e pregiudizi sono costruzioni sociali che non rappresentano la realtà ma che, considerate credenze, contribuiscono a mantenere le differenze di potere tra gruppi (questo avviene nel genere con la subordinazione femminile e il dominio maschile) e producono effetti sui destinatari (profezie che si autoavverano).
Gli stereotipi di genere e la loro rappresentazione hanno dunque i seguenti risultati:
Contribuiscono a biologizzare le differenze di genere
Accentuano le differenze tra maschile e femminile
Minimizzano le differenze intercategoriali
Negano la legittimità alle costruzioni identitarie che si propongono come alternative (es. le identità omosessuali, transgender)
Favoriscono il mantenimento dello status quo
Il ruolo dei media è fondamentale per scardinare questo meccanismo e si basa sul modificare immagini tradizionali dei ruoli di genere, rifiutare la rappresentazione di una specifica immagine del corpo femminile e rifiutare l’ipersessualizzazione delle bambine.
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